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Luciano Berio, Cronaca del Luogo

Luciano Berio
Cronaca del Luogo (1999)*

Non c’è un “sujet” vero e proprio e non c’è un libretto che si possa raccontare. Non c’è quindi una storia lineare con un antefatto, uno sviluppo più o meno conflittuale e una soluzione finale. Cronaca del Luogo non è un’opera ma, come tutti i miei lavori di teatro, un’azione musicale. Questo significa che la musica genera tutto ed è responsabile di tutto, anche se il percorso musicale è stato profondamente condizionato dal gran disegno del testo di Talia Pecker Berio. Ma allo stesso tempo il testo si è adeguato, in molti dei suoi dettagli, al percorso musicale, instaurando con esso un dialogo molto intenso ma anche discontinuo e imprevedibile. La stessa cosa, almeno in parte, era già accaduta con La vera storia, Un re in ascolto e Outis. In Cronaca del Luogo il percorso e l’architettura musicale assimilano il testo e la drammaturgia in diversi modi. Volevo che testo, musica e scena si possedessero l’un l’altro con apparente libertà e in tanti modi diversi, ma che potessero anche instaurare e sviluppare, a tratti, una loro autonomia; un po’ come le voci compiutamente definite di una polifonia virtuale. Un dato comune alle diverse forme di possesso del testo da parte della musica è la tendenza all’essenzialità, alla discontinuità, all’intermittenza della drammaturgia e, per breve tempo, anche a una certa reciproca indifferenza della musica, del testo e della scena. Sui tempi lunghi dell’architettura musicale e anche nell’ambito di ogni singola scena, si incontra anche molta unanimità espressiva fra il testo, la scena e, appunto, la musica. Questo avviene soprattutto quando è presente e agisce la figura centrale di Cronaca del Luogo, R, che a Salisburgo verrà interpretata da Hildegard Behrens. Insisto comunque sul fatto che un aspetto generale che mi interessava affrontare era la possibilità di sviluppare contraddizioni, lontananze e situazioni elusive e virtuali.

Il testo di Talia Pecker Berio ha radici vaste e profonde nella Bibbia e, a tratti, anche in due voci poetiche del nostro secolo, Paul Celan e Marina Cvetaeva. Il titolo ha una sua storia. Quando, con Talia, si era in procinto di decidere un titolo, ho pensato che se fossi francese il titolo avrebbe potuto essere Chronique de Dieu. Un titolo difficile, naturalmente, del quale mi interessavano la contraddizione dei termini e le implicazioni lievemente ironiche – francesi, appunto – dell’abbinamento. Ma l’ironia e la contraddizione non sembrano essere attributi divini, e forse proprio per questo, quel titolo era intraducibile: in un’altra lingua si appesantisce e sembra prendere il suono di una bestemmia. Abbiamo allora deciso per Cronaca del Luogo dal momento che nella tradizione ebraica il Luogo è uno dei modi di nominare un Dio impronunciabile. Ma non solo. Questo lavoro, nella sua concezione, è fortemente condizionato dal luogo della sua esecuzione, la Felsenreitschule di Salisburgo. È, insomma, anche una “chronique du lieu”. La Felsenreitschule è uno spazio che mi ha sempre affascinato. È essenzialmente costituito da un muro pieno di “stanze” e da una piazza. Il muro fu scavato nella roccia nel 1693 per permettere ai salisburghesi di assistere, dall’alto, alle esibizioni di cavalli e cavalieri nello spazio sottostante. Negli anni Venti il regista Max Reinhardt trasformò quello spazio in teatro di prosa e nel 1948 Karajan lo aprì all’opera. In Cronaca del Luogo coro e strumenti vengono distribuiti in quel muro scavato nella roccia, alto circa 25 metri e largo 30, sovrastante una “piazza” sulla quale possono prendere forma le azioni e che può essere abitata da presenze (non solo vocali) molto diverse fra loro. In quella piazza la figura di R è una presenza monumentale ed è inevitabile che essa provochi, a tratti, la storia vocale e intellettuale della sua interprete. Ma susciterà anche qualcosa di nuovo.

Ci sono dunque un coro e un’orchestra invisibili, collocati verticalmente nel muro e un direttore d’orchestra anch’esso invisibile. Ma forse non è esatto parlare di orchestra. Si tratta piuttosto di un gruppo di cinquanta strumentisti che avranno spesso ruoli solistici: insomma una musica da camera dilatata, diversificata e dilagante. La stessa cosa accade per il coro che spesso si frantuma in tessuti e articolazioni solistiche. Dal punto di vista acustico la strategia vocale e strumentale è talvolta analoga a quella che avevo già sperimentato in Coro, anche se musicalmente ne è lontanissima e con la differenza sostanziale che in Cronaca del Luogo voci e strumenti sono distribuiti verticalmente nel muro. Si tratta, naturalmente, di una faccenda piuttosto complessa ma al tempo stesso nuova e affascinante. Questa verticalità sviluppa e intensifica le sue ragioni acustiche e musicali anche grazie all’impiego di diverse tecnologie informatiche.
La presenza o, piuttosto, l’idea del muro ha influenzato anche il testo non tanto per i momentanei riferimenti, spesso allegorici, al muro di Gerico e ai muri della torre di Babele, ma perché figure, situazioni e fatti appaiono spesso come motivati e generati da quanto è virtualmente nascosto in quella muraglia petrosa e impenetrabile. Questo coinvolge tanto il testo quanto la musica, naturalmente, e può essere anche considerato come il mio omaggio a un fatto primario (che i registi tendono spesso a ignorare) e cioè che quello che si percepisce e si vede è sempre e comunque condizionato da quello che non si vede.

La musica la posso analizzare ma non posso descriverla. È una cosa che non si fa. Posso solo dire che ho costruito un vero e proprio muro armonico (nel senso strutturalmente più ampio e percepibile del termine) sul quale vengono inscritte (un po’ come graffiti, forse) figure diverse e dal quale vengono estratti, dedotti e sviluppati processi musicali di carattere diverso, conflittuale e spesso contradditorio. «Mi contraddico?» si domandava Walt Whitman. «Ebbene sì, mi contraddico. Sono largo, contengo moltitudini».

Il teatro musicale di oggi porta inevitabilmente con sé il suo fardello di contraddizioni. Ma deve saperle usare in maniera consapevole, nuova e costruttiva (e in questo Brecht ha ancora qualcosa da insegnare) senza dimenticare che una volta il pubblico si identificava anche nei personaggi delle più squallide opere e ne sanciva un altrettanto squallido successo. Questo bisogno quasi fisiologico di identificazione col “personaggio” e col “plot” oggi è in gran parte soddisfatto dal cinema e dalla televisione ed è indotto e sostenuto dal mercato, quello che cerca solo di vendere i suoi prodotti a una audience sempre più grande e ottusa. Ma trovo che in questo non ci sia niente di tragico né di sorprendente; è sempre stato così, anche se su scala molto più ridotta. Il teatro musicale di oggi deve essere consapevole del suo patrimonio genetico, del fatto che un teatro d’opera è un sacrosanto e irrinunciabile museo e che ci sono tutte le condizioni, oggi, per costruire un futuro diverso e migliore e per formare un pubblico più consapevole e interessante, cioè un pubblico di ascoltatori e non di consumatori di musica.

* da Luciano Berio, Scritti sulla musica, a cura di A. I. De Benedictis, Torino, Einaudi 2013, pp. 304-307. Per la genesi del testo cfr. la sezione «Note bibliografiche e di commento al testo» del volume (ivi, p. 525).