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Furio Colombo

CON LUCIANO

C’è un momento in cui siamo a Parigi (anni Cinquanta), c’è un concerto nel pomeriggio, dirige Luciano. Viene a salutarlo Pierre Boulez. La sala, per qualche convenzione turistica o per un evento internazionale, è piena di giapponesi. Alla fine, mentre Luciano si cambia sotto il palco, manda me a ringraziare per i lunghi applausi. Abbiamo entrambi folti capelli neri a ciuffo, occhiali con montatura pesante e io per caso sono vestito di scuro. Gli applausi durano a lungo. Devo tornare in scena cinque volte.

Nel laboratorio di Fonologia Musicale della Rai di Milano verso sera trovi Luciano in maglietta che si muove agile come un disc jockey da una consolle all’altra, regolando suoni e mixaggio, mentre John Cage interviene con qualche gesto, già vestito con giacca e cravatta (con il nodo già fatto, quelle che si legano dietro) perché fra poco deve andare in studio nel programma di Mike Bongiorno (Cage concorre sui funghi, di cui sa tutto). Entra Bruno Maderna, contenuto a stento dal colletto inamidato del tight (stasera dirige), è un po’ paonazzo e sembra disegnato dal pittore Adami. C’è Umberto Eco con una copia molto letta, molto sfogliata di Ulisse, che nessuno ha ancora tradotto e ben pochi conoscono (oltre a Umberto e Luciano) in Italia. È nato quella sera (1958) Omaggio a Joyce. C’è anche la mia voce e me ne vanto da allora.

Ai «Pomeriggi Musicali» al Teatro Nuovo, a Milano, si va in gruppo per fare barriera quando gli abbonati (soprattutto signore) che, al massimo tollererebbero Respighi, cominciano a mormorare il loro sdegno «per la musica di questi giovani». Noi ci alziamo e applaudiamo forte. Verso la fine della stagione applaudono in tanti, anche in piedi, come noi.

Mattina di sole, ma non ancora d'estate. Il luogo è una spiaggia scomoda (Imperia) a cui si arriva precipitando da una duna terrosa. Ci hanno detto «Il maestro è là, o è fuori in barca». Era fuori dall’alba e lo vediamo arrivare su un barcone azzurro e sverniciato da pescatore. Era solo, in piedi, come un Ulisse che torna, un coltello da caccia di traverso sul fianco, un grande pesce alzato come un trofeo, la coscia ferita. Noi eravamo ridicoli e vestiti, ma siamo rimasti insieme due ore. Luciano puliva il pesce e parlava di musica, stava per andare in California a insegnare, passava dal Giappone a dirigere. Una volta tolti piatti e bicchieri, prendendo dalla risma di carta che Luciano ha buttato al centro del tavolo, scriviamo in fretta, quasi scarabocchiando per un “libretto”. Luciano ci ha parlato di un’opera su una nave che affonda, tipo il Titanic. Si può raccontare la musica? Sanguineti arriva più vicino. Tocca a lui scrivere il testo per l'opera nascente. Guardo intorno al tavolo immaginario. Sanguineti è il mio compagno al liceo. Eco è il mio compagno all'università. Berio è mio collega alla RAI.

Luciano Berio è in piedi, sul palcoscenico del Lincoln Center. È salito perché la folla in piedi non smette di applaudire, si inchina in quel suo modo un po’ impacciato, non per timidezza o modestia. Ha un orgoglio immenso per la sua musica. Però sa che siamo al di là, in un territorio che prima non c’era. A lui si attribuisce il merito di avere guidato il viaggio in questo al di là, dove suono e silenzio si contendono il dominio, e il maestro è colui che compie i gesti che muovono l’uno e l’altro (e in quale sequenza). Chi ascolta prova gratitudine, prima ancora che ammirazione.

Call sono due minuti e mezzo di “sequenza” che si fissano in un punto della memoria. È un suono alto di tromba che chiama, non sai da quale distanza. Una voce limpida e piena comanda da chissà quale passato, un lampo di rimpianto e di promessa. Passa da un punto profondo e doloroso e poi immensamente luminoso di te che lo ascolti, e subito raggiunge un culmine. All’improvviso senti, nell’annuncio che riempie tutto lo spazio del respiro e del silenzio, la durezza acuminata dell’addio...

Furio Colombo